AMELIA ROSSELLI di Zeffiro Ciuffoletti
Amelia Rosselli è stata una donna di eccezionale levatura culturale e morale, anche se è nota soprattutto per essere la madre dei fratelli Rosselli: Carlo e Nello uccisi barbaramente in Francia, nei pressi di Bagnoles-de-l’Orne, nel 1937, da un’organizzazione terroristica di estrema destra in collusione con i servizi segreti del fascismo. In verità, di figli Amelia ne aveva tre, ma il primo, Aldo, era morto eroicamente (27 marzo 1916), poco più che ventenne, combattendo contro gli austriaci sul Pal Piccolo, nelle montagne della Carnia.
Il suo cuore, come scriveva nel giugno del 1937, dopo la morte dei due figli, aveva provato «l’abisso del dolore» e della «nera profondità disperata [aveva attinto] la forza del dovere vivere». Amelia era, in realtà, una donna dolce e colta, ma con un carattere forte ed un forte senso della dignità della vita, come di chi sentisse di dover testimoniare qualcosa di alto e nobile. Era una scrittrice di commedie, drammi e racconti per l’infanzia, legati spesso alla sua vita di giovane donna colta, che aveva vissuto una crisi matrimoniale ed aveva affrontato con forza straordinaria l’educazione dei tre figli ancora piccoli.
Dei dieci volumi che scrisse, quasi tutti fra il 1898 ed il 1914, sei sono dedicati a drammi o commedie e quattro a prose più o meno narrative. In tutte le sue opere si riflettono frasi e drammi interiori della sua stessa vita. In questo senso sono opere autobiografiche, anche se la storia più grande e più drammatica, ma anche la più bella e profonda, fu quella intensa e terribile che visse nella realtà. Una tragedia non scritta, ma vissuta con profondità e dignità fino all’ultimo.
Amelia Pincherle, questo era il cognome di nascita, era nata a Venezia da una famiglia ebrea che vantava tradizioni risorgimentali, quantomai vive. Il padre di Amelia aveva combattuto alla difesa di Venezia nella rivoluzione 1848-49 ed il cugino di lui, Leone Pincherle, aveva fatto parte del governo provvisorio della città. Il vecchio padre conservava a casa, come una reliquia, un tozzo di pane nero, simbolo della resistenza di Venezia assediata dall’esercito austriaco nel 1849. La stessa Amelia ispirò uno dei suoi ultimi drammi, San Marco (1913), proprio alla difesa di Venezia del 1848.
Giovanissima, ma già colta e bella, con i suoi occhi azzurri, i lunghi capelli chiari, il disegno perfetto del viso, si sposò con Giuseppe Emanuele Rosselli, di famiglia ebrea, imparentata con i Nathan, nella cui casa pisana era morto ancora in clandestinità Giuseppe Mazzini, il 10 maggio 1872. Sia Amelia che Giuseppe, detto anche “Joe”, apparteneva a quella élite ebraica risorgimentale che aveva assunto un ruolo di rilievo economico e sociale, ma più che altro culturale e politico nel giovane Stato liberale. L’ebraismo aveva assunto una valenza morale. Amelia si sentiva ebrea, ma come scrisse nel Memoriale, «prima di tutto italiana». In realtà le drammatiche vicende italiane e tedesche degli anni venti e trenta spinsero i Rosselli a riflettere sulla loro identità ed a riconnotare la loro appartenenza all’ebraismo, senza, peraltro, conferire a questo elemento un valore politico e religioso, ma bensì morale e culturale.
Sia Giuseppe che Amelia sentivano il fascino dell’arte e della cultura ed appena sposati si recarono a Vienna. La capitale dell’Impero austro-ungarico era, allora, la capitale della cultura europea, dalla musica alla pittura, dall’architettura alla scienza. [...] “Joe”, che era appassionato compositore e musicologo, si trovò nella capitale della musica e dell’arte, da Otto Wagner a Klimt, da Schubert a Mahler.
Per la giovane coppia innamorata quell’esperienza fu intensa, e proprio a Vienna nacque il primo dei loro figli, Aldo (27 luglio 1895), ma forse sempre a Vienna maturò la passione di Amelia per il teatro e per l’introspezione psicologica. Nel 1897, al rientro in Italia, pubblicò il suo primo dramma, Anima, che fu presentato a Torino, al Teatro dell’arte, da un bravo attore, Alfredo de Sanctis, che divenne amico di Amelia per tutta la vita. Fu un successo e l’opera fu salutata come una rivelazione. [...] In questo primo lavoro c’è il motivo ispiratore di fondo di gran parte dell’opera di Amelia Rosselli: il conflitto in tutte le sue valenze sociali ed individuali; il conflitto fra generazioni; il conflitto di genere; il conflitto fra le classi; il conflitto fra lo spirituale ed il materiale; il conflitto fra attori politici nazionali ed antinazionali. Temi nuovi, moderni, indicativi di una crisi quale quella che si avvertiva nell’età della bella époque, sotto la facciata delle grandi scoperte scientifiche ed i grandi progressi economici e sociali del secolo che si apriva.
Amelia e Giuseppe Rosselli erano sposati nel 1893, ma nel 1902, quando ormai erano già nati altri due figli, Carlo (1899) e Nello (1900), si separano. Fu una separazione dolorosa che Amelia sopportò con grande coraggio. Da Roma, dove la famiglia Rosselli viveva, Amelia, in compagnia dei tre bambini e della nurse inglese Emy, che ben presto dovette licenziare, andò a vivere in un modesto quartiere di Firenze, la città che in quel momento poteva attrarre una giovane scrittrice desiderosa di conoscere ambienti più stimolanti di quelli romani.
Nel 1901 Amelia aveva pubblicato una nuova commedia, L’Illusione, dove ancora una volta il tema dominante era il tradimento, il pentimento ed il perdono, infine l’impossibile riconciliazione. [...] L’illusione fu rappresentata a Torino, al Teatro Carmignano, da Teresa Mariani, una delle maggiori attrici del tempo. Segno evidente che si trattava di temi sentiti, ma anche troppo aspri nelle soluzioni stilistiche per essere apprezzati fino in fondo.
A Firenze, Amelia non trovò, però, in un primo momento vita facile. Anzi proprio a Firenze riscoprì Venezia, l’amore per la sua città natale, per quella città nella quale aveva trascorso una giovinezza felice, gironzolando per le calli nelle sere d’estate, quando, come lei stessa scrisse «La mia piccola anima vibrava all’unisono con quella della mia città, ebbra di caldo, di allegrezza, risonante di canti femminili da una riva all’altra; da una all’altra finestra, di risa, di chiacchiere e frizzi, prima di lasciare il posto al romantico silenzio che a sera inoltrata si sarebbe impadronito di lei, come un amante …».
Da questo amore per Venezia nacquero tre commedie in veneziano, tutte e tre rappresentate con successo da un grande attore come Ferruccio Benini e dalla sua gloriosa compagnia.
Il rèfolo (1909), rappresentato per la prima volta al teatro Quirini di Roma, ebbe un grande successo di pubblico e di critica. Domenico Oliva, il maggior critico teatrale della capitale, definì Amelia Rosselli «una delle poche scrittrici che posseggono il senso del teatro». El socio di papà (1911) fu, invece, rappresentato al teatro Goldoni di Venezia. Proprio in quell’anno morì Giuseppe, al quale Amelia si era riaccostata per sostenerlo nella sua malattia. I tre figli stavano crescendo e occupavano sempre di più la sua mente e il suo cuore, ma anche le sue modeste finanze. Dal suo impegno di madre e di scrittrice erano usciti due racconti per bambini, pieni di amore per la vita, di insegnamenti morali e di solidarietà per la povera gente: Topinino (1903) e Topinino garzone di bottega (1909). In quel tempo Aldo, il figlio maggiore ed il più amato, fu mandato dalla madre a lavorare in una bottega di falegname, visto che non aveva voglia di studiare. Ed è proprio questa la storia che si racconta in Topinino garzone di bottega, dove per crescere e capire il prossimo si sceglie non solo la via delle parole, ma anche quella delle esperienze. Amelia era una madre dolce e sensibile, ma anche decisa nell’affrontare gli scogli della vita e l’educazione dei figli.
Con la morte del padre (1911) la famiglia Rosselli si trovò ricca all’improvviso: da un cassetto della casa romana saltarono fuori un bel mucchio di azioni della società mineraria Siele. Amelia si era ormai inserita nel mondo culturale fiorentino ed era entrata in contatto con donne colte come lei, quali la scrittrice Laura Orvieto e poi Gina Lombroso, moglie dello storico Guglielmo Ferrero e figlia del famoso criminologo torinese Cesare Lombroso. In realtà Amelia, non solo aveva mantenuto una fitta rete di relazioni parentali con le ramificate famiglie ebree dei Nathan, Levi, Treves, Zabban, Olivetti ecc …, ma era entrata a far parte del “Lyceum”, vero e proprio sodalizio di donne intellettuali fiorentine, che partecipavamo attivamente al dibattito culturale e politico di una città vivace, attraversata da correnti avanguardistiche ed innovatrici e da fermenti politici di stampo antiriformista ed antinazionalista. Amelia era una liberale aperta ed anche molto avanzata in fatto di solidarietà sociale ed emancipazione femminile, ma era anche molto attaccata alla tradizione risorgimentale, alla patria italiana, in senso mazziniano.
La guerra era alle porte e con la guerra cominciò il primo atto della tragedia familiare. Aldo, studente di medicina, ardente interventista, si arruolò e divenne tenente di fanteria. Nel 1916, il 27 marzo, morì dopo aver guidato il suo reparto, nonostante fosse stato colpito alla testa da proiettili nemici. La madre, credendolo vivo ,continuava a scrivere con insistenza lettere struggenti e cariche di presentimenti, finché dopo giorni arrivò la notizia ufficiale della morte di Aldo e poi, in Comune, dove funzionava un efficiente servizio di informazioni per le famiglie dei soldati, un plico di lettere. [...]
Scrisse ancora Fratelli minori, che uscì nel 1921. Ancora una volta un libro autobiografico: quello di una crisi che aveva colpito i “fratelli minori”, una crisi davanti alla guerra, al nazionalismo, alla tragedia che aveva colpito il fratello, Aldo, morto proprio per quegli ideali, che sui campi di battaglia si erano disseccati ed insanguinati. Carlo e Nello avevano fatto in tempo anche loro ad andare sotto le armi, a vedere e sentire i drammi della guerra e le delusioni del dopoguerra. Amelia coglie con finezza i tratti della crisi e avverte l’avvicinarsi di altre tempeste che divideranno gli italiani sconvolgendo il paese con una sorta di guerra civile, dalla quale emergerà il fascismo.
Amelia, rimasta «chiusa nel suo dolore senza parole» non scrisse più, se non quel grande e magnifico Epistolario, poi assecondò, consigliò, protesse i suoi figli in tutte le loro scelte politiche e di vita. [...] La madre Amelia fu per loro, per i figli e per le nuore, l’”anello forte” che teneva unita una famiglia che la sorte aveva così diviso. Sopportò tutto con coraggio e cercò in ogni frangente, anche il più grave, di far sentire la sua mano ferma e carezzevole. Fino in fondo a quel tragico giorno del giugno 1937, quando Carlo e Nello morirono di una morte ancora più crudele di quella di Aldo. [...]
Amelia si precipitò a Parigi [...]
L’”anello forte” della famiglia non si spezzò nemmeno allora e nell’esilio negli Stati Uniti si impegnò anima e corpo per i suoi nipotini rimasti orfani, fino ad insegnare loro la lingua italiana e la letteratura di quella patria con lei tanto crudele, eppure da lei tanto amata. Dopo la caduta del fascismo, finalmente fece ritorno a Firenze, nella casa di via Giusti, dove morì nel 1954, alla vigilia di Natale.