Intervento del Professor Settis: premiazione all'artista Ron Mehlman.

Pubblichiamo l'intervento del Prof. Salvatore Settis alla premiazione dell'artista Ron Mehlman nella XXIV° Edizione del Premio Internazionale "Pietrasanta e la Versilia nel mondo".

 

Comincio con una domanda: come mai uno studioso di arte antica e del Rinascimento, che magari qualche volta si spinge fino a Caravaggio, osa oggi parlare di un artista contemporaneo come Ron Mehlman? E’ vero, di arte contemporanea io non sono esperto, e devo scusarmi se oggi prenderò la parola in questo contesto; e tuttavia della produzione artistica del nostro tempo sono assai curioso, anche perché essa mi interessa sotto un angolo visuale particolare: il rapporto con la tradizione artistica. Ed è proprio da questo punto di vista che qualche anno fa che qui a Pietrasanta, in questa stessa sala, ho avuto un colloquio pubblico con Ivan Theimer, che anche oggi è presente tra noi.
Oggi sono molto contento di essere qui perché amo Pietrasanta, perché voglio bene a Ron; ma soprattutto perché vorrei rendere omaggio al suo lavoro proponendovi alcune riflessioni precisamente sul suo rapporto con la tradizione. Tutti gli artisti, naturalmente, hanno un qualche rapporto con la tradizione: a volte meramente passivo e recettivo, altre volte aggressivo e distruttivo: ma della tradizione nessuno può fare a meno. Perché se non vi fosse una “tradizione artistica” non vi sarebbe nemmeno il mestiere dell’artista. Quale è, dunque, il rapporto specifico di Ron Mehlman con la tradizione?
Quel che io vedo nella sua scultura ha molto a che fare con questo grande tema: nel lavoro di Ron a me pare di riconoscere l’importanza di un uso sperimentale dei materiali, la ricerca della loro composizione entro un insieme significante, la capacità di combinare e funzionalizzare reciprocamente i vari materiali, di farli parlare e raccontare delle storie; infine, il rilievo che Ron dà al formato delle sue sculture, a volte assai piccole, a volte invece monumentali, ha anch’esso a che fare con una secolare tradizione artistica. Non credo di sbagliarmi se dico che le scelte a monte di ogni singola opera di Ron Mehlman hanno sempre un significato, che si traduce in una caratteristica essenziale del suo lavoro: l’onnipresenza di un gesto elegante e colto proprio perché altamente artigianale e profondamente consapevole.
La materia in Ron Mehlman fa l’opera quanto la fa lo scultore. La materia “detta” allo scultore quel che egli può anzi deve fare; al tempo stesso, lo scultore “dice” alla materia quello egli si aspetta, l’uso a cui vuol piegarla pur rispettandone le potenzialità naturali. Perciò la scultura di Ron Mehlman è spesso come una tela di pittore, e il colore naturale dei materiali che egli usa crea una trama di marmi, come il paramento o il pavimento in opus sectile di una sala delle case imperiali sul Palatino: dialogano così tra loro travertino, onice, legno e bronzo, con delicate sopraggiunte di colori, unendo talvolta anche objets trouvés che si incastrano nelle sue opere, anzi vi trovano casa.
Questa coscienza artigianale, questo alto artigianato che Ron Mehlman rappresenta molto bene, spiega perché Pietrasanta sia e debba restare un luogo di elezione, non soltanto come cornice, come sfondo di questo premio, ma come luogo della tradizione, come luogo che racconta esso stesso capitoli ed episodi dell’ arte scultorea, come luogo in cui si respira la tradizione della scultura, la sapienza artigianale, la presenza viva dei materiali.
A Ron ho sentito dire spesso: “Qui trovo pietre di tutto il mondo, posso giocare come voglio, posso fare quello che voglio con queste pietre”. In una mostra di suoi lavori (ce ne sono già state tante e altrettante ce ne saranno), vorrei prima o poi vedere esposto accanto alle sue opere anche uno scaffale con gli arnesi che egli usa: scalpelli, martelli, seghe con cui taglia il vetro e così via. Quel che sappiamo della sua evoluzione artistica, e che le immagini che scorrono sullo schermo alle mie spalle mostrano e raccontano, è la tensione tra la stratificazione naturale dei materiali per come essi sono, e una specie di seconda natura, una “nuova natura” che Ron inventa via via partendo dai materiali che incontra, che plasma, che compone.
Se volessimo tentare una piccola storia del lavoro artistico di Ron Mehlman, quale viene in mente al solo guardare queste immagini, mi pare di poter dire che il punto di partenza (negli anni ’60) vada considerato la scultura in legno, talvolta tendenzialmente figurativa, da cui egli è partito. Di qui mi pare si sia avviata una ricerca sui materiali e sulle forme. Una ricerca formale nella quale la sua produzione è diventata crescentemente monumentale e astratta, studiando e catturanndo le forme naturali, ma insieme ammorbidendole e rendendole più permeabili allo spazio. Usando il bronzo le pietre e il legno, scolpendo sculture per esterni, molto presto Ron ha cominciato a costruire sculture monumentali, quasi totemiche: creature di una “seconda natura”, la sua, in cui alle forme arrotondate si è gradualmente sostituita una geometria nascosta, una griglia geometrica sempre più rigorosa, che ha il senso di un’organizzazione intellettuale della materia scultorea.
Via via che ha cominciato a usare insieme col legno e con la pietra altri materiali, dal bronzo al plexiglass al vetro, si è reso sempre più evidente e centrale un altro elemento del lavoro di Ron Mehlman: la luce. E’ una luce “rivelatrice”, che gioca sulla trasparenza di alcuni materiali e l’opacità di altri, e che anima le superfici delle sue sculture, talvolta estremamente polite e quasi riflettenti, altre volte lasciate al naturale, o ancora delicatamente sabbiate o colorate. Geometria, trasparenze, luce costruiscono un discorso attraverso la manipolazione e la giustapposizione dei materiali. A me pare che questo continuo dialogo con la luce abbia qualcosa a che fare con il lavoro di Janice sulla fotografia, nel quale la luce, per esempio nel rivelare e commentare architetture, ha un ruolo centrale. Raramente, anzi, ho visto una coppia di artisti in cui, pur nella completa diversità dei mezzi che adoperano, si possano riscontrare tante sintonie.
Di fronte al biancore dei marmi delle Apuane, famosi in tutta la Terra, Ron non si è passivamente arreso, non si è genuflesso: al contrario, ha deciso di puntare sulla policromia e sulla polimatericità, usando sì il marmo (magari colorato), ma facendolo dialogare con pietre di altra provenienza (anche da altri continenti), puntando moltissimo sulla composizione. “Composizione” è una parola antica, quella che si usava parlando di Raffaello o di Michelangelo, per indicare la relazione reciproca delle figure sia in pittura che scultura. Se provo a usarla per il lavoro di Ron Mehlman, è perché essa ha qui un altro significato, che però è un significato antico: la congiunzione di determinati materiali entro un insieme nuovo e significativo. Sono “composizioni”, le sue, che spesso diventano architetture; sculture che sono di fatto piccole architetture (a volte nemmeno tanto piccole), in cui il gioco tra il pieno e il vuoto punta a una nuova monumentalità attraverso la policromia dei materiali. Ron è certo consapevole che la policromia della scultura, anche a costo di colorare il marmo bianco, è una storia assai antica: i Greci coloravano le loro statue, ma non usavano il marmo delle Apuane; i Romani usavano il marmo delle Apuane e lo coloravano molto spesso. La policromia del marmo diventa dunque una citazione, un riferimento alla tradizione.
Negli anni ’90 l’arte di Ron si rifà a geometrie sempre più complesse: in una sua scultura, ad esempio, dove c’è un gioco citazionistico, forse un’allusione al Bacio di Brancusi. Il Bacio di Brancusi diventa come una silhouette geometrica, che però allude a un grande scultore di alcune generazioni fa, mostrando ancora una volta la capacità di Ron di assorbire la tradizione, ma anche la sua gioia nel cambiare e mescolare i materiali, nel costruire un’immagine che fa tutt’uno col suo basamento. Questa è infatti un’altra delle caratteristiche di Ron Mehlman che sono interessanti da ricordare: la base delle sue sculture viene gradualmente incorporata nella scultura stessa; la base non è estranea e posticcia, ma viene pensata dall’inizio insieme con la scultura che sosterrà. Era dunque inevitabile che un altro elemento della tradizione classica, le Cariatidi, gli ispirassero spunti compositivi. D’altra parte, al disotto del colore che anima le superfici, come un velo d’acqua, si vede nettamente la superficie naturale del marmo; e, all’estremo opposto del suo ventaglio espressivo, anche un materiale quanto mai opaco, il cartone ondulato, entra nelle sperimentazioni di Ron Mehlman. Cartone che diventa scultura, come era diventato architettura d’arredo nell’opera di Frank Gehry, in particolare nella sua casa a Santa Monica.
Quando ho parlato poco fa con Ron Mehlman del suo lavoro, gli ho sentito usare una frase molto bella : voglio che la pietra mi dica che cosa devo fare, “let the stone tell me what to do”: la pietra dice allo scultore che cosa vuole e lo scultore dice alla pietra cosa vuole fare lui. E da un certo punto in qua, negli anni 2000, le pietre hanno chiesto a Ron di essere trasformate in paesaggi: tagliate o spaccate secondo tecniche particolari, le pietre “rappresentano”, anzi sono paesaggi. Negli ultimi anni Ron ama sempre di più una pietra del Belgio molto scura, con la quale si possono ottenere effetti cromatici straordinari; non usa invece mai l’alabastro. Gli ho chiesto perché, e la sua risposta è interessante per contrasto: “too soft for me”. L’alabastro è troppo cedevole per uno scultore come lui, che nel rapporto con la materia cerca, provoca una sfida continua. Perciò Ron cerca la trasparenza, piuttosto, nell’onice, materia che lo sfida più di quanto non faccia l’alabastro. Sfidare la materia, fare lavorare la materia insieme con il gesto dello scultore: questo è il “senso del mestiere” che Ron porta con sé, nel fare artistico come nel parlarne. Infine, vorrei ricordare un altro aspetto del suo lavoro: giocare con degli objets trouvés, per esempio dei pezzi di sedie Thonet, quasi come fossero un’allusione al modernismo viennese, ma poi subito ridurre queste sue composizioni in forma quasi ideogrammatica, come vedete nel depliant di questo evento, dove si vedono piccole sculture polimateriche disposte contro il muro, quasi altrettanti geroglifici o ideogrammi di un linguaggio sconosciuto.
Ron Mehlman sa estrarre dai materiali qualità nascoste, potenzialità che sono altrettante proprietà inesplorate, potenzialità di combinarsi tra di loro e cogliere la luce, catturandola e rifrangendola. Ecco perché la sua scultura è un viaggio di scoperta alla ricerca di una nuova naturalità. Le venature naturali delle varie pietre o marmi vengono evidenziate ma non create, Ron non ne aggiunge delle altre, ma attraverso sapienti accostamenti inventa una genealogia, anzi una geologia, che in natura non c’è mai stata.
La sua scultura è un incrocio tra storia naturale, pittura,scultura, architettura. Le sue fontane sono opere di architettura e studio di luci, luci inerenti ai materiali, che possono interagire tra loro nonché con l’aria e con l’acqua, con l’acqua vera che scorre e con l’acqua finta dei materiali: un gioco di trasparenze, di pieni e di vuoti che sono altrettante riflessioni sul suo proprio gesto di artista. Un gioco di forme plastiche e di luci; sculture che chiedono di dialogare con l’osservatore, sculture che si presentano a noi come uno spazio di riflessione, come un invito a meditare. La riflessione dell’artista avviene simultaneamente con la mente, con gli occhi, con le mani: ma è solo un primo stadio nella creazione. Viene prima della nostra riflessione (quella dell’osservatore), ma consapevolmente la prepara e la provoca.
Questa osservazione porta alla mia conclusione di oggi, che sarà sulla dimensione del lavoro di Ron che trovo la più importante, perché nella scultura sembra non possa esserci ma invece c’è: la dimensione del tempo. Quanti sforzi sono stati fatti nella storia dell’arte per rendere il tempo e il movimento! Pensate a Bernini o a Boccioni , per fare due nomi ovvii. Quanto a Ron Mehlman, il tempo della sua scultura ha tre aspetti. Primo aspetto, il tempo che è servito a lui per fare la scultura, dalla scelta dei materiali alla loro lavorazione, alla composizione come insieme significante e armonico. Secondo aspetto, il tempo che noi impieghiamo a capire tale processo: è quel che si chiama reverse engineering, quel che si fa nello spionaggio industriale quando si prende una macchina e la si smonta per cercare di capire come è stata fatta (ai tempi della guerra fredda, russi e americani smontavano gli arei da caccia dell’avversario per capire a che punto fossero arrivate le sue capacità tecnologiche). Analogamente, quando guardiamo un’opera di Ron ci domandiamo fatalmente : che materiali sono, da dove vengono, questa pietra è così naturalmente o l’ha colorata lui? Questo accostamento di pietre è una stratigrafia geologica vera o una geologia ipotetica, che lui stesso ha inventato? Insomma, il suo è un gioco di specchi nello spazio, che cattura la nostra attenzione per la qualità notevole della scultura ma anche per il suo carattere perpetuamente sperimentale: perché Ron Mehlman non si ferma e non si ripete, cambia in continuazione, modifica il suo approccio alla materia e al colore. Questo è dunque il terzo aspetto della dimensione tempo nella sua scultura. Il tempo non è soltanto il tempo dello scultore né solo quello dell’osservatore: c’è anche il tempo della scultura stessa, una sorta di ritmo musicale che aggiunge ad ogni scultura un ventaglio di domande implicite. Molte le domande, anzi, poche le risposte: perché la scultura di Ron Mehlman ci fa pensare. Ci fa pensare con il suo artefatto tempo geologico, come se una forza superiore all’artista avesse compresso nel tempo, usando come strumento le sue mani, quei processi geologici che nella realtà sono avvenuti in milioni di anni, e che lo scultore può far accadere in poche settimane.
La vita della materia, la vita dell’artista, la vita dell’osservatore in qualche modo si corrispondono; e queste sculture sono un prezioso punto d’incontro. L’arte dovrebbe essere, e qualche volta davvero è, qualcosa che ci fa pensare. Grazie Ron perché la tua scultura “fa pensare”.

Biografia Prof.Settis

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